Intervista Luca Meola
a cura di Teodora Ranieri – Studentessa di Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti
di Bari

1) La situazione di Cracolândia rappresenta un tipo di comunità con evidenti disagi sociali, fisici
e psicologici. Quanto comunque questa idea di comunità può essere salvifica per le persone ai
margini sociali, che altrimenti non avrebbero neppure di che vivere? Penso per esempio ai
molteplici bambini presenti.
Comunità è la parola chiave per intendere questo contesto. Anzi, più che comunità Quilombo. I
Quilombos, durante il periodo coloniale, erano comunità autonome formate da ex schiavi
fuggiti dalle piantagioni brasiliane. La Cracolândia è un quilombo urbano i cui frequentatori e
abitanti sono per l’80% neri, hanno scontato un periodo in prigione e hanno un basso tasso di
scolarizzazione. Questa zona nel centro della città più ricca del Sud America, São Paulo del
Brasile, è l’unico e possibile luogo dove a questi corpi è dato di esistere. Il consumo di crack è la
punta dell’iceberg ed è evidente come alla radice di tutto vi sia una problematica strutturale in
paese post schiavista come il Brasile. Cracolândia è un quilombo urbano perché “accoglie” e nel
contempo rappresenta un sistema di opportunità e sopravvivenza.
Il fluxo (flusso) è il cuore di Cracolândia, da lontano è una grande concentrazione di persone,
una fiera della droga a cielo aperto attiva 24h. Dall’interno, un’analisi più attenta, ne apprezza
la caratteristica di microcosmo con una propria dinamica: oltre agli spacciatori, ci sono
sentinelle che osservano chi si avvicina al territorio, ci sono venditori di sigarette, fabbricanti di
pipe, commercianti di vestiti usati, parrucchieri e prostitute. Nel fluxo, tutto viene scambiato e
venduto: qualsiasi tipo di oggetto, dai vestiti alle sigarette. Il crack è la moneta di scambio con
cui si arriva a barattare fino il proprio corpo. Negli edifici decadenti del quartiere, non ancora
colpiti dal processo di gentrificazione, ci sono piccoli negozi di alimentari, mercatini dell’usato e
pensioni che ospitano famiglie numerose e povere, che da decenni vivono in questa regione e
ne hanno vissuto tutte le trasformazioni.
Mi chiedevi dei bambini. I bambini non stanno nel mercato della droga ma vivono negli edifici
popolari che lo circondano. Ogni volta che un bambino passa vicino al fluxo gli usuari di crack
gridano “un angelo, un angelo” e nascondono le pipe con cui stanno fumando. Un gesto di cura
e rispetto che non ti aspetteresti da chi vive una condizione così degradante a causa della
propria dipendenza.
2) La Commissione dei Diritti Umani come si occupa di Cracolândia e dei tentativi di repressione
sanguinari?
Ci sono molti analisti che vedono nella politica adottata dal potere pubblico negli ultimi anni in
questo contesto una vera e propria guerra. Una guerra alla droga che diventa una guerra contro
i poveri che hanno per la stragrande maggioranza la pelle scura. È interessante tracciare un
parallelismo tra la situazione americana e quella brasiliana, che sono oggi il primo e il terzo
paese al mondo per numero di detenuti nelle carceri.
Negli USA Ronald Reagan annunciò l’inizio di una politica di guerra alla droga nel 1982, quando
il crack si diffondeva rapidamente nei quartieri dove vivevano le fasce più povere composte per
la maggior parte da afro discendenti. Da quel momento in poi si è assistito a un vertiginoso
aumento di arresti e di condanne per reati legati allo spaccio di crack, soprattutto tra i neri,
mentre vi era un approccio meno criminalizzante rispetto ai reati legati alle droghe più utilizzate
dai bianchi americani, come la cocaina. Nel caso del Brasile, in forma analoga, c’è stata
un’ondata di incarcerazioni a partire dal 2006, quando è entrata in vigore una nuova legge sulla
droga. Negli ultimi anni in Brasile, come è successo negli USA, migliaia di donne e uomini per lo
più afro discendenti sono finiti in carcere per reati legati allo spaccio di stupefacenti.
La presenza dell’autorità pubblica sul territorio si manifesta per lo più attraverso le numerose
operazioni di polizia, che si sono intensificate a partire dal 2017, da quando Cracolândia ha
cominciato a essere trattata quasi esclusivamente come una questione di ordine pubblico e
sicurezza. Negli ultimi anni è cresciuta la presenza del IOPE, le truppe antisommossa della
Guardia Civile Metropolitana. Con l’aumento della presenza di questo corpo di polizia nella
zona, sono aumentate anche le denunce di varie organizzazioni per i diritti umani: le misure
adottate dagli organi di polizia, con abuso di armi non letali, bombe a gas e torture, hanno
portato nell’intera comunità un eccesso di violenza.
L’anno passato, un anno segnato da azioni particolarmente cruente, le mie fotografie sono
state usate dalla Commissione dei Diritti Umani per rafforzare in ambito giudiziario le denunce
contro la violenza della polizia. E’ stato uno dei momenti più gratificanti del mio tragitto
professionale perché ho sentito che il mio lavoro quotidiano di documentazione aveva
veramente un senso.
3) Come concilia le sue attività di commissionato con le attività documentaristiche? Possono
influenzarsi e ciascuno dare un contributo all’altra?
Vivo solo di fotografia dal 2010 circa e soprattutto in campo fotogiornalistico non è semplice.
Non nascondo che faccio parecchi lavori commerciali e in campo documentaristico collaboro
con ONG e alcune testate. Il mio progetto sulla Cracolândia nasce come progetto personale, è
cominciato nel 2018 e solo dopo anni ne sto raccogliendo i frutti: premi, esposizioni e alcune
pubblicazioni. A differenza di un commissionato, dove ovviamente c’è la mia firma ma,
spesso si ha poca libertà di movimento e poco tempo, su questo lavoro io decido tutto:
dove e cosa pubblicare e soprattutto mi do la possibilità di dedicarmici per tutto il tempo necessario.
Oggi per fortuna vivo una condizione molto privilegiata, forse la migliore a cui si può aspirare
nel mio campo. A fine anno ho vinto un Grant indetto da un importante museo della città di São
Paulo. Da gennaio fino a fine marzo sono sul campo per produrre un lavoro completamente
nuovo e inedito su questo territorio. Questo Grant mi sta dando le risorse per un’immersione
ancora più profonda.
4) Pensa di poter realizzare un lavoro cinematografico con l’insieme di interviste e note che ha
raccolto in questi anni?
Sono un fotografo e mi sento in qualche modo un antropologo. I miei strumenti di lavoro sono
la macchina fotografica e il registratore per tenere traccia delle storie delle persone. Lascio il
lavoro cinematografico a chi fa video…a ognuno il suo.
Ora sono esattamente a metà del mio progetto e per ora il mio obiettivo è sopravvivere fino a
fine marzo anche solo da un punto di vista emozionale a questa full immersion. Il materiale che
sto raccogliendo per il museo diventerà probabilmente una mostra e prenderà forma di
archivio. Trovo che sia molto bella l’idea di tenere una testimonianza in un museo della città di
cosa è questo contesto così unico e complesso.
Oggi la mia più grande aspirazione è che il mio lavoro possa anche avere un ritorno per le
persone del territorio, per coloro di cui sto raccontando le storie. Spero che questo progetto
possa contribuire a costruire un punto di vista più profondo e più umano di un contesto che
nella grande maggioranza dei casi viene raccontato in una forma superficiale e criminalizzante.
